Nell’ultimo periodo, sulle pagine dei nostri giornali, i titoli di cronaca nera in cui c’imbattiamo sembrano somigliarsi un po’ tutti: “In un raptus strappa gli occhi al padre”, “L’ha uccisa in un raptus di gelosia” e ancora “Uno sguardo di sfida fa scattare il raptus”. Termini come “raptus” o “follia” troppo spesso vengono associati a episodi di violenza tentata o subita e, troppo spesso, non ci dicono nulla su ciò che realmente si nasconde dietro questi fatti criminosi. Io stessa tempo fa, in un articolo scritto su queste pagine riguardo gli abbandoni sentimentali, sottolineai la distinzione fra omicidio passionale e omicidio d’impeto, inteso come un’esplosione emotiva improvvisa e incontrollabile. Bisogna stare attenti però, a non ridurre il fenomeno ad un mero attimo di follia improvvisa. Questa è la leggenda a cui si è portati a credere. Dietro la parola “raptus” e dietro ciò che in realtà lo determina, esiste sempre un percorso, un percorso sommerso che però conta. Una storia che si prepara prima, fatta di frustrazioni, rabbia, impotenza, un insieme di sentimenti che trovano la loro massima espressione in un gesto improvviso di perdita di controllo di sé. Una delle metafore più significative che spesso uso con i miei pazienti per descrivere la nostra vita emotiva, è quella della pentola a pressione che, così come all’aumento graduale della temperatura, senza valvole di sfogo, prima o poi esploderà, allo stesso modo le esplosioni emotive della mente umana, come i raptus, rappresentano lo sfogo violento, incontrollato e irrazionale delle emozioni e frustrazioni represse. Sotto l’effetto dei raptus si inveisce, si distrugge, si uccide. Questi delitti avvengono in uno stato mentale di coscienza alterato che si crea, dunque, come un corto circuito tra emozioni violente e comportamenti, escludendo totalmente la logica e la razionalità e dove l’ostilità verso tutto e tutti non è più contenibile. Tutto in quel momento viene visto come un nemico su cui scaricare l’aggressività cieca e violenta. Anche nella calda quiete familiare può bastare un niente per scatenare comportamenti violenti. Il raptus di fatto appartiene a persone che ancor prima manifestano un malessere presente nella loro mente, attraverso segnali che spesso non vediamo o che sottovalutiamo. E’ per questo che quando il fatto avviene, ci potrebbe sembrare imprevisto e imprevedibile. Ma anche l’esordio di una malattia mentale, in fondo, viene preannunciato da una serie di comportamenti “strani”. Se noi non diamo alcun valore a quei comportamenti, succede che l’azione ci sembra al di fuori di ogni comprensibilità. Invece non è così. Il percorso oscuro di quell’azione ha radici nella mente dove si vanno ad accumulare rabbia, impotenza, inadeguatezza o l’incapacità di farsi valere. Tanto più lungo sarà il percorso, il periodo in cui ho combattuto contro l’idea di essere impotente, tanto più aumenterà l’intensità della reazione. E’ vero che per qualsiasi mente umana nulla è prevedibile e nulla è escludibile per ciò che farà in futuro, fatto sta che i segnali esistono sempre ma il più delle volte non li vediamo. In questi termini allora potremmo dire che non esiste il raptus, esiste piuttosto un’esplosione dopo anni di sofferenza manifestata in diversi modi, spesso confusi ma che pur sempre ci comunicano tanto. E se solo la società non dimenticasse che esiste anche il “disagio mentale” che pertanto va curato, forse prima che si arrivi al raptus, sarebbe possibile ancora fare qualcosa.
Archivi categoria: Depressione
L’altro volto delle feste di fine anno
Mentre si accendono le luci in città e tutto intorno brilla in una calda atmosfera ovattata, c’è chi non sorride. Tra la gente, in silenzio, prova una sensazione indefinibile che si trasforma in ansia, tristezza, fino a dargli struggimento. Eppure è Natale! Dov’è finita la felicità di quando era bambino? Gli spot in televisione, l’entusiasmo dei bambini in attesa dei regali, i preparativi dei familiari, tutti sembrano gioire ma lui ha nel cuore il gelo e, sotto l’albero, il vuoto. Si sente a disagio, inadeguato perché non è felice come l’occasione richiederebbe. Se solo avesse la possibilità di sparire, lo farebbe. Così cerca tutte le scuse possibili per giustificare il proprio stato d’animo: il consumismo, l’ipocrisia, la commedia del volersi bene. Il Natale sembra avere un altro volto per lui: quello amaro della solitudine, della tristezza. Volto reso ancora più acuto e doloroso per il contrasto stridente con la felicità, più o meno vera, degli altri. Si chiama “Christmas blues”, la melanconia del Natale che, con la sua atmosfera, ha il potere di amplificare il nostro stato d’animo facendoci tornare un po’ bambini, meno disposti ad indossare maschere per nascondere le emozioni più profonde. Il Natale ci invita a riflettere sulla nostra vita, sulle persone che abbiamo accanto e che abbiamo perso, sulle delusioni vissute e i cambiamenti che vorremmo. Il dolore impalpabile e indefinito che a volte ne consegue, ci porta così a vivere pesantemente queste giornate cariche di aspettative. Un tour de force di visite obbligate, sorrisi di circostanza, buoni sentimenti forzati, il tutto magari preceduto da una frenetica corsa ai regali. Ulteriore fonte di stress specie per chi, a causa di un lavoro precario o che non c’è più, si avvicina a vivere un Natale di crisi. Ma la “famiglia artificiale” prevale su quella di tutti i giorni. Una vera e propria recita collettiva che si è chiamati ad onorare come attori obbligati nel proprio ruolo di figlio, nipote, genitore, nonno, anche se magari si attraversa un momento in cui non si è capaci di dare agli altri il meglio di sé. Costretti a condividere con parenti lunghe giornate di festa, cene, rituali nei quali ci si sente estranei e a disagio. Così si attende il nuovo anno come una sorta di liberazione, non dall’anno vecchio ma dalle feste. Le tradizioni però, danno significato e continuità al nostro vissuto, pertanto più che negarle, dovremmo imparare a viverle! “Non vi è nulla di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e non essere un bambino”. Niente di più vero. Ci aspettiamo quella felicità che abbiamo vissuto da bambini e quando non arriva, ci sentiamo delusi. Adulti schiacciati da convenzioni che obbligano a badare più alla quantità che alla qualità. Dimenticando che ciò che bisogna curare è lo “scambiare” non il “riempire”, ora di cibo, ora di regali o di persone. Il gusto della condivisione si può ritrovare solo scegliendo con chi vogliamo stare e dove stare. Allora forse, alla fissità dei nostri ruoli, dovremmo imparare a rispondere con una maggiore flessibilità delle emozioni, per uscire da una ritualità che non sentiamo nostra e trovare modi nuovi ma “sentiti” per celebrare il Natale. Ci basterebbe entrare in sintonia con chi ci sta vicino cercando ciò che di buono si può trovare in ognuno e ritagliare uno spazio tutto per noi, in cui poter essere tristi senza soffocare le nostre emozioni. Ascoltare se stessi è, senza dubbio, il regalo migliore che ci possiamo fare. Buon Natale!
In viaggio verso l’holiday blues
Agosto, periodo in cui ci si incontra in città semideserte e invece del “Come stai” ci si chiede “Tu non vai in vacanza?”. Rito d’obbligo collettivo dell’estate. Viaggio a cui non si può rinunciare pur di esorcizzare quell’immagine statica di noi stessi. Si viaggia verso il mare, i monti, tutti i posti purchè sia un “altrove”. Un altrove che ci permette di scoprire alternative immaginate, di svincolarci dai “lacci” della quotidianità e riscoprire il nostro “io” libero da ansie e restrizioni. Troppo spesso però, viviamo il momento della partenza con l’illusione che due mandate di chiavi alla nostra porta blindata possano blindare anche i nostri problemi. Come un’amante troppo a lungo desiderata ci aspettiamo che la nostra vacanza metta a posto tutto quello che non funziona nella nostra vita, le fatiche, gli stress, le ferite psicologiche o il ricordo di un amore appena finito: impossibile. I colori del mare al tramonto di certo non hanno nulla a che vedere con le nostre mura domestiche ma puntualmente, quando pensiamo al nostro viaggio in modo magico e idealizzato, come una sorta di “panacea” per tutti i nostri problemi, il rischio in cui incorriamo è di trasformare quello stato di fuga momentaneo in un ulteriore fonte di stress da cui senz’altro saremo delusi. Delusione che cancella ogni fascino di qualunque bellezza di quei luoghi tanto sospirati, che ci lascia smarriti, ansiosi, desiderosi di tornare alle nostre amate abitudini, così rassicuranti rispetto a luoghi che non conosciamo! Viaggiare infatti è spostarsi da un luogo all’altro e quindi, in un certo senso, è trovarsi in una sorta di terra di mezzo non definibile, sconosciuta e ciò che non si conosce per definizione spaventa. Non a caso “partire è un po’ come morire” si dice. Ma nonostante ciò ci facciamo coraggio pensando che non possiamo rinunciare al nostro viaggio, unica soluzione a tutti i problemi. Quando però al rientro ci accorgiamo che nulla è cambiato e che ogni problema è rimasto esattamente lì dove l’avevamo lasciato, al malessere si aggiunge altro malessere. Delusione, senso di stordimento e tristezza diffusa sono solo alcune delle inevitabili conseguenze di un viaggio che abbiamo idealizzato e che non è andato come avevamo immaginato. “Holiday blues”, così chiamano gli americani la “sindrome da rientro”. E’ in questo momento che ci rendiamo conto che la nostra scelta di partire, carica di aspettative, forse è stata un obbligo dettato più dalla moda e dalle nostre conflittualità irrisolte, che da un nostro reale bisogno. Comprendiamo allora che spensieratezza e gioia sono esperienze ed emozioni soggettive, non oggettive come la vacanza in sé, che non possono manifestarsi se non ci allontaniamo effettivamente, ossia anche interiormente, dai nostri problemi concreti. Nessun viaggio, per quanto entusiasmante, può sanare le nostre ferite se prima non impariamo a fermarci. Basterebbe chiudere ogni tanto gli occhi e ascoltarsi avvicinandosi con entusiasmo alla vita, con curiosità alle diversità e prospettiva alle difficoltà. Ascoltare il proprio cuore, i sogni dimenticati ma non perduti, i bisogni che il ritmo incessante della nostra vita soffoca, forse può essere già l’inizio di un viaggio che possiamo ripetere ogni volta che ne sentiamo il bisogno. Perché, citando Pessoa: “Per viaggiare basta esistere. Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. […]La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori.[…]”