Ancora una volta ci sono donne sul nostro panorama mediatico. Donne che tristemente arrivano ai titoli di cronaca per dare il via a una nuova ondata di campagne di sensibilizzazione volte a smuovere le coscienze di chi si protegge nel silenzio. Peccato che nessuna campagna si rivela efficace senza una tragedia che faccia notizia. Sarah Scazzi è dovuta arrivare morta sul tavolo mediatico perché si parlasse, ancora una volta, di violenza sulle donne. Ora ciò che morbosamente ci interessa è sapere se abbia subito violenza dopo la morte, poco importa invece, cosa abbia dovuto subire Sarah, forse per lungo tempo, prima di arrivare alla morte. Sì, perché ci sono violenze che non arrivano ai titoli di cronaca e che forse, in molti casi non arriveranno mai. Non mi riferisco solo a Sarah, violata nella sua innocenza dallo “zio buono” ma a tutte quelle donne che subiscono violenza da chi si nasconde nella loro stessa casa. Perché i casi che vengono alla luce il più delle volte rappresentano solo la punta di un iceberg. Perché tragicamente la violenza, se non è mortale, viene nascosta dai familiari o dalle stesse vittime. Per paura, per colpa o peggio ancora per tutelare “l’onorabilità della famiglia”. Ma esiste sempre una violenza prima della “violenza”. Violenze striscianti fatte di offese e umiliazioni. Un insieme di gesti, limiti, imposizioni irragionevoli che creano un’infelicità senza nome. E’ ciò che si definisce “clima maltrattante”. Un malessere difficile da denunciare, persino da capire. Perché ammettere, prima di tutto a se stesse, che a farci del male è qualcuno da cui ci aspettiamo affetto e protezione, è doloroso e difficile. Spesso, le prime che stentano a capire sono proprio le vittime di questa violenza, “affare privato” su cui si deve tacere. Ci sono donne che subiscono per anni, accettando in silenzio umiliazioni accanto a un uomo percepito come dottor Jeckill e Mister Hide: buono e gentile in pubblico, mostro in privato. Alla violenza fisica si arriva in un secondo tempo, a fronte di tensioni che crescono come reazione a donne che non accettano di “stare al loro posto” o che decidono di “parlare”. Di solito però, la reazione tarda ad arrivare. L’inevitabile ambivalenza tra amore e rabbia è alterata e la violenza invece di separare, unisce. Staccarsi viene percepito come più pericoloso che rimanere muti a subire. Donne che appaiono come anestetizzate. Anche dietro una frase “A volte esagera ma in fondo mi vuole bene” possono nascondersi condotte violente: trovare un alibi, a costo di giustificare una violenza, è un modo per cercare di dare un senso alla propria storia e sopravvivere al senso di colpa. Entrano in gioco la vergogna, il timore di essere criticate o non essere credute, soprattutto quando chi maltratta gode di stima da parte delle persone intorno. Per uscire dalla violenza, le donne vanno aiutate a rielaborare il loro vissuto, raccontarsi una storia diversa, in cui la violenza è un male e chi lo subisce, non è responsabile ma vittima. Le iniziative a tutela delle donne però non bastano. E’ necessario iniziare a lavorare anche sugli uomini violenti. Il problema è che per cambiare, il maltrattante deve riconoscersi come tale. Ma non tutti hanno la coscienza di Gandhi che ammise: “Ho imparato la lezione della non violenza da mia moglie quando ho cercato di piegarla alla mia volontà”. Eppure, finché gli “uomini violenti” non saranno educati a questa coscienza, le cicatrici sulle donne continueranno a restare. E non solo sul corpo, ma sull’anima violata.
9 aprile 2011
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