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La sofferenza che fa spettacolo

La sensazione delle ultime settimane è sempre la stessa: ogni volta che mi lascio tentare dal telecomando sembra che tutte le trasmissioni televisive siano diventate monotematiche. Ed ecco che allo sdegno si aggiunge la vergogna. Non mi riferisco all’invasione di cronaca nera che morbosamente dilaga anche nelle fasce protette della tv, come il caso di Avetrana, a quello ci  siamo abituati. Con Sarah c’è Elisa e, prima ancora, i coniugi di Erba o il caso di Cogne. Eppure anche se i volti cambiano, il contorno resta lo stesso, come la mia reazione. Mi riferisco ai nuovi “personaggi” della tv. E’ a loro che non riesco ad abituarmi. Quelli che si sentono autorizzati a operare diagnosi a distanza sulla base di  notizie di cronaca, emettere giudizi senza conoscere nulla dei protagonisti e sollevare questioni che spesso oltrepassano il loro ambito. Li vediamo in tv che con fare altezzoso diffondono verità confezionate ad hoc per lo spettacolo mediatico, trascurando del tutto la complessità dell’aspetto emotivo di profondo disagio che vivono gli interessati di queste vicende. Ma non ho mai visto nessuno di loro esimersi dall’azzardare pareri su fatti di cui non hanno alcuna conoscenza diretta e che tra l’altro, nel caso la si avesse, non si potrebbe rivelare. Tutti cadono nel gioco mediatico per esprimere le loro verità, o meglio, le loro “profezie”. Ci troviamo così di fronte un groviglio di irrealtà immaginate, dove osservare e comprendere i fenomeni puramente umani è diventato impossibile e il bisogno di apparire, la principale regola del gioco. Il criminologo è il nuovo “personaggio” televisivo. Non mancherà molto che i bambini desiderino essere uno di loro da grandi. Peccato però, che l’effetto collaterale del loro successo sia quello di distorcere la realtà e di screditare la restante parte di professionisti che davanti la macchina da presa non ci lavora. E’ per questo che quando accendo la tv provo vergogna. Io stessa sulle pagine di questo giornale spesso scrivo di fenomeni legati alle vicende di cronaca dandone un’interpretazione psicologica ma, con coscienza, ho sempre sottolineato quanto fosse importante conoscere la storia di vita di ciascun protagonista. Quello che tento di dare è informazione contro cattiva informazione, spiegando che nessuna conoscenza è possibile se non vi è anche conoscenza del percorso, della storia emotiva, del vissuto di ogni protagonista della nostra cronaca. Come psicologa ho imparato che non esistono due persone uguali, né due disturbi uguali, per quanto possano essere identificati con lo stesso “nome”. Ho imparato l’unicità e l’irripetibilità dell’essere umano. Nel mio studio ho una scrivania e una libreria ma non ci sono sfere di cristallo per eventuali profezie che mi permettano di dire se chi ho di fronte è un deviato, un disturbato, un ansioso o un depresso, prima ancora di “conoscerlo”. L’unico strumento che ho è il colloquio, l’unico mezzo che mi permette di comprendere la sofferenza della persona che ho di fronte. Perché dietro “il paziente” c’è prima di tutto una persona con la sua storia di vita, il suo dolore e il suo personalissimo modo di sentire. Purtroppo non basta un rapido sguardo per poter “leggere” nella mente, anche se in tv c’illudono del contrario. Per fortuna però, dietro le telecamere restano ancora tanti professionisti seri che lavorano con passione nel labirinto dell’animo umano, consapevoli che con la sofferenza non si dovrebbe, non si deve fare spettacolo.

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Donne allo specchio

C’era un tempo in cui le bambine giocavano a Castello e “Uno due tre Stella”. Ora invece, le bambine impiegano il loro tempo a incipriarsi il naso. Fra trucchi, massaggi e manicure, magari trovano anche il tempo per fare shopping, con Barbie sottobraccio. Kid’s Beauty, così chiamano all’estero il “Tempio del benessere” rivolto a bambine rigorosamente under 14. Le caramelle ci sono, lo smalto e il rossetto, pure. Le mamme? Loro sono ben liete di accompagnarle, soddisfatte delle loro caricature in miniatura. Madri che a tutti costi vogliono sembrare moderne e progressiste, così spaventate dall’idea di apparire noiose conservatrici, da aver fretta di far crescere le loro figlie. Madri talmente assuefatte dalla violenza subdola da non riuscire più nemmeno a percepirla, diventandone loro stesse artefici. Viviamo in una società schizofrenica in cui, da un lato, si riconosce la protezione del bambino come valore primario, dall’altro, si tende a opacizzare sempre più le differenze tra adulti e bambini, ad accelerare la loro crescita in nome di una precocità che dovrebbe renderli vincenti nell’arena sociale, quando invece, inculcare nei bambini atteggiamenti tipici degli adulti, altro non è, che una forma di violenza. Furto dell’infanzia. Nella nostra società si diffondono sempre più manifestazioni mascherate di violazione dell’infanzia, basta sfogliare riviste di moda (vedi il caso Vogue) in cui proliferano foto di ragazzine truccate in abiti succinti e pose seduttive, sempre più somiglianti a bambole gonfiabili che, in maniera più o meno esplicita, veicolano messaggi più o meno erotici. Il tutto, naturalmente, avviene per la gioia degli sponsor e della mamma che, con occhi sognanti, attende il successo dell’amata figlia. Così, mentre le donne si preparano a scendere in piazza per difendere la loro dignità e contrastare l’utilizzo volgare e offensivo che si fa della loro immagine, le bambine si “erotizzano”. Ciò che più preoccupa è che a questa forma di erotizzazione precoce non concorrono soltanto i media ma anche molti genitori. Le ragazzine sono così indotte a pensare al loro corpo come oggetto di desiderio altrui e a considerarsi cose da guardare e valutare per il loro aspetto, incoraggiate a impegnarsi in atteggiamenti seduttivi che attirano l’attenzione dell’altro sesso, prima ancora di essere in grado di comprenderne le potenziali conseguenze sul piano fisico e psicologico. Il fatto che, per imitazione, una ragazzina arrivi ad assumere atteggiamenti da lolita, non fa che fornire appoggio agli stereotipi sessuali che dipingono le donne come oggetti di desiderio e fanno dell’aspetto estetico il cuore del loro valore, arrivando a rappresentare un allettante vivaio che soddisfa le brame voyeuristiche e normalizza gli appetiti dei pedofili. Per questo, di fronte a tali forme di mercificazione, i genitori ma soprattutto la donna nel proprio ruolo di madre, dovrebbe prendere coscienza di come i propri atteggiamenti possano incoraggiare questa tendenza invece di ridurne l’impatto. Forse ogni madre dovrebbe ricordarsi più spesso di quando era bambina e giocava a Castello e “Uno due tre Stella”. Quando l’infanzia né si comprava, né si vendeva e ogni bambino, aveva ancora il diritto di essere bambino. Ora invece, viviamo in un paese in cui fa giustamente inorridire l’idea che un ricco, vecchio signore possa aver usato giovani donne per soddisfare i suoi “bassi istinti” ma, la naturalezza con cui le giovani donne ammettono candidamente di essersi fatte usare, non ci meraviglia più.


Contro l’anoressia non basta sdoganare la 46

La notizia è che “Miss Italia 2011” aprirà le porte alla taglia 46. Sembra che vogliano provare a smantellare quell’immagine di donna idealizzata, magra e sorridente, imposta dalla corrente mediatica e il cui effetto nefasto ha già fatto sentire, sui soggetti più fragili, i suoi segni mortiferi. Ci aveva già provato il governo Zapatero, oggi tocca a noi. Dopo varie campagne di sensibilizzazione contro l’anoressia, questo è l’ennesimo tentativo di cambiare un’epoca dell’immagine dove il canone estetico della magrezza è da sempre premiato, specie dai mass media. Ma davvero si diventa anoressici per il semplice effetto del condizionamento mediatico? L’anoressia è di certo il sintomo di una cultura dell’immagine e dell’incomprensione dell’immagine stessa. Non si diventa anoressici da soli ma in un contesto sociale dominato dalla mancanza d’“essere” e dove il corpo ruba il posto all’anima per riconoscersi, comunicare. Anoressia e Bulimia, infatti, non sono malattie del corpo ma esprimono con esso una sofferenza profonda, fatta per esser vista ed esibita attraverso il corpo. La magrezza, ne è solo il sintomo e chi ne soffre, è una persona talmente identificata con il proprio corpo che spesso non sa mettere in parole la sua sofferenza. Persone fragili, impotenti che cercano la propria identità in un peso corporeo idealizzato credendo che controllando il corpo possano controllare anche la propria vita. Si cerca approvazione nella magrezza inseguendo canoni estetici ideali, senza accorgersi che sarà la magrezza stessa, ben presto, a controllare. La magrezza diventa straordinaria conquista nonostante l’amenorrea, i sintomi depressivi, ossessivi, compulsivi che aumentano di pari passo con la perdita di peso. Come in una prigione, in un corpo sfinito e consunto, gli anoressici s’illudono di avere tutto sotto controllo, il loro corpo e i loro bisogni e giudicano debole chi “cede” ai bisogni del corpo. Si ergono così psicologicamente sugli altri, sui “deboli” ma a livello psichico sono esseri fragili e bisognosi, non amano se stessi e vivono con la paura di essere rifiutati o non essere amati. Servendosi dell’isolamento, evitano il rifiuto. Con la negazione del cibo mettono a tacere tutte le emozioni e questo, è certamente più sicuro del lasciarsi andare. Il dolore resta così incompreso, congelato nel corpo. Un dolore che non vogliono riconoscere e che spesso può nascondere una storia di traumi, violenze e abusi sessuali, dove l’unica soluzione diventa quella di “sparire” con il proprio corpo attraverso la via del digiuno, senza accorgersi che rifiutando il cibo, stanno rifiutando tutto ciò che è stato dato loro, anche la vita. Non è quindi il corpo ridotto ad un mucchietto di ossa senza spessore che chiede aiuto ma è la persona con il suo mal di vivere che ha bisogno di essere accolta. E’ chiaro quindi, che non è il condizionamento mediatico ad essere la sola causa dell’anoressia ma se si sceglie il corpo come teatro di sofferenza celata, è di certo perché viviamo in un epoca in cui il senso di ciò che siamo è ingabbiato nel modo in cui appariamo, conseguenza del suadente bombardamento mediatico. Fino a quando si darà attenzione solo a questo, la sofferenza non avrà mai modo di essere ascoltata. Se a “Miss Italia” si esibiranno “persone” e non solo corpi perfettamente modellati (magari con un aiutino chirurgico) con l’unica differenza in una taglia, allora sarà apprezzabile l’impegno. Ma crediamo davvero che a “Miss Italia” possano interessare “persone”?


Colpevoli di pregiudizio

Saper distinguere il buon giudizio dal pregiudizio non è sempre facile. Tutti noi siamo in qualche misura inclini al pregiudizio. Basta un pettegolezzo, una notizia, un titolo di cronaca perché un pregiudizio prenda forma ufficiale senza renderci conto che ci stiamo solo facendo influenzare dal contesto. Il caso di Elisa Claps ne è un esempio, tutti accusano tutti ancor prima che vi sia una verità stabilita da chi di competenza sulla base di fatti e non di dicerie, che ben si adattano al pregiudizio. Senza ombra di dubbio tutti noi qualche volta volontariamente o involontariamente abbiamo avuto idee sbagliate giudicando male qualcuno e a sua volta, noi stessi siamo stati giudicati male. Tuttavia, se i pensieri che alimentano il pregiudizio vengono scacciati subito, è probabile che facciano poco o nessun danno. Ciò che è dannoso, è quando questi giudizi errati prendono ampiamente corpo fra la gente dando luogo ad azioni ingiuste, vessatorie o addirittura violente. Voci senza fondamento, spesso maligne, ingiuriose e calunniose che non si lasciano modificare nemmeno quando sopraggiungono informazioni che le contraddicono, perché ciò significherebbe perdere fiducia in qualche cosa che può in effetti esser vero. Nessuno può eliminare i pregiudizi, può semplicemente prenderne atto. Eisten addirittura sosteneva che è più difficile vincere il pregiudizio che dividere l’atomo. Ma perché abbiamo bisogno del pregiudizio e perché si diffonde così velocemente? Spesso accade perché ci vogliamo credere. Perché per gestire le nostre ansie è rassicurante trovare una verità in modo veloce ed economico. Di certo la realtà è da ciascuno di noi inventata, ciò che viviamo è solamente ciò che costruiamo, pertanto riteniamo vero solo ciò che il nostro pensiero decide che sia. Il pregiudizio però, è una delle nostre costruzioni più estreme, probabilmente dovuto alla nostra limitazione conoscitiva, un errore grossolano che costituisce un’azione “utile” a se stessi ma dannosa per l’altro. In questa realtà, le persone vengono costruite come colpevoli non perché lo siano realmente, ma solamente perché non sono facilmente comprensibili dalla massa che il più delle volte, attraverso il pettegolezzo, diventa preda di una “follia del pregiudizio”. Un bisogno personale di osservare l’altro attraverso il giudizio preconfezionato e diffonderlo mediante “contagio” per proteggere nevroticamente se stessi annullando l’identità dell’altro. E’ qui che sopraggiunge la fatidica domanda: Come facciamo a vincere il pregiudizio? Al di là di chi vive in prima persona un dolore subito, bisognerebbe imparare ad essere umili, imparziali, onesti e distaccati. E’ necessario saper cercare e saper trovare la verità, poiché la verità è il punto di partenza di ogni azione intelligente; è il solo metro col quale si possono misurare uomini e avvenimenti ed è l’unico mezzo che permette di evitare l’errore, la sconfitta e quindi l’amarezza delle conseguenze. E’ inutile cercare la verità se la ricerca non è onesta. Eppure ci risulta difficile. Sigmund Freud diceva: “Molte persone sono molto sensibili alla forza magica delle parole, che hanno il potere sia di provocare nell’anima collettiva le tempeste più violente, sia di placarle”.[…] “Le folle non hanno mai provato il desiderio della verità. Chiedono solo illusioni, delle quali non possono farne a meno”. Forse per cercare la verità occorre vera indipendenza e una buona dose di coraggio. Il coraggio di accettare i nostri limiti e quelli della nostra conoscenza.


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