Archivio dell'autore: Dott.ssa Katia Blasi

Fare Psicoterapia Cognitiva (STPC)


6 -12 Maggio: Settimana del Benessere Psicologico

484442_10200941768097324_966918158_nIl 6 Maggio inizierà la “Settimana del Benessere Psicologico”. Gli psicologi aderenti all’inziativa (che si terrà dal 6 al 12 maggio) oltre a conferenze ed eventi che si terranno in almeno 30 comuni della Basilicata, offriranno una prima consulenza psicologica gratuita a tutti coloro che, in quella settimana, contatteranno per un appuntamento uno degli studi professionali. Per appuntamento, il mio recapito di studio sarà disponibile sul sito dell’Ordine degli Psicologi della Basilicata: (www.slbp.it)

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La sofferenza che fa spettacolo

La sensazione delle ultime settimane è sempre la stessa: ogni volta che mi lascio tentare dal telecomando sembra che tutte le trasmissioni televisive siano diventate monotematiche. Ed ecco che allo sdegno si aggiunge la vergogna. Non mi riferisco all’invasione di cronaca nera che morbosamente dilaga anche nelle fasce protette della tv, come il caso di Avetrana, a quello ci  siamo abituati. Con Sarah c’è Elisa e, prima ancora, i coniugi di Erba o il caso di Cogne. Eppure anche se i volti cambiano, il contorno resta lo stesso, come la mia reazione. Mi riferisco ai nuovi “personaggi” della tv. E’ a loro che non riesco ad abituarmi. Quelli che si sentono autorizzati a operare diagnosi a distanza sulla base di  notizie di cronaca, emettere giudizi senza conoscere nulla dei protagonisti e sollevare questioni che spesso oltrepassano il loro ambito. Li vediamo in tv che con fare altezzoso diffondono verità confezionate ad hoc per lo spettacolo mediatico, trascurando del tutto la complessità dell’aspetto emotivo di profondo disagio che vivono gli interessati di queste vicende. Ma non ho mai visto nessuno di loro esimersi dall’azzardare pareri su fatti di cui non hanno alcuna conoscenza diretta e che tra l’altro, nel caso la si avesse, non si potrebbe rivelare. Tutti cadono nel gioco mediatico per esprimere le loro verità, o meglio, le loro “profezie”. Ci troviamo così di fronte un groviglio di irrealtà immaginate, dove osservare e comprendere i fenomeni puramente umani è diventato impossibile e il bisogno di apparire, la principale regola del gioco. Il criminologo è il nuovo “personaggio” televisivo. Non mancherà molto che i bambini desiderino essere uno di loro da grandi. Peccato però, che l’effetto collaterale del loro successo sia quello di distorcere la realtà e di screditare la restante parte di professionisti che davanti la macchina da presa non ci lavora. E’ per questo che quando accendo la tv provo vergogna. Io stessa sulle pagine di questo giornale spesso scrivo di fenomeni legati alle vicende di cronaca dandone un’interpretazione psicologica ma, con coscienza, ho sempre sottolineato quanto fosse importante conoscere la storia di vita di ciascun protagonista. Quello che tento di dare è informazione contro cattiva informazione, spiegando che nessuna conoscenza è possibile se non vi è anche conoscenza del percorso, della storia emotiva, del vissuto di ogni protagonista della nostra cronaca. Come psicologa ho imparato che non esistono due persone uguali, né due disturbi uguali, per quanto possano essere identificati con lo stesso “nome”. Ho imparato l’unicità e l’irripetibilità dell’essere umano. Nel mio studio ho una scrivania e una libreria ma non ci sono sfere di cristallo per eventuali profezie che mi permettano di dire se chi ho di fronte è un deviato, un disturbato, un ansioso o un depresso, prima ancora di “conoscerlo”. L’unico strumento che ho è il colloquio, l’unico mezzo che mi permette di comprendere la sofferenza della persona che ho di fronte. Perché dietro “il paziente” c’è prima di tutto una persona con la sua storia di vita, il suo dolore e il suo personalissimo modo di sentire. Purtroppo non basta un rapido sguardo per poter “leggere” nella mente, anche se in tv c’illudono del contrario. Per fortuna però, dietro le telecamere restano ancora tanti professionisti seri che lavorano con passione nel labirinto dell’animo umano, consapevoli che con la sofferenza non si dovrebbe, non si deve fare spettacolo.


Il lato oscuro della violenza

Ancora una volta ci sono donne sul nostro panorama mediatico. Donne che tristemente arrivano ai titoli di cronaca per dare il via a una nuova ondata di campagne di sensibilizzazione volte a smuovere le coscienze di chi si protegge nel silenzio. Peccato che nessuna campagna si rivela efficace senza una tragedia che faccia notizia. Sarah Scazzi è dovuta arrivare morta sul tavolo mediatico perché si parlasse, ancora una volta, di violenza sulle donne. Ora ciò che morbosamente ci interessa è sapere se abbia subito violenza dopo la morte, poco importa invece, cosa abbia dovuto subire Sarah, forse per lungo tempo, prima di arrivare alla morte. Sì, perché ci sono violenze che non arrivano ai titoli di cronaca e che forse, in molti casi non arriveranno mai. Non mi riferisco solo a Sarah, violata nella sua innocenza dallo “zio buono” ma a tutte quelle donne che subiscono violenza da chi si nasconde nella loro stessa casa. Perché i casi che vengono alla luce il più delle volte rappresentano solo la punta di un iceberg. Perché tragicamente la violenza, se non è mortale, viene nascosta dai familiari o dalle stesse vittime. Per paura, per colpa o peggio ancora per tutelare “l’onorabilità della famiglia”. Ma esiste sempre una violenza prima della “violenza”. Violenze striscianti fatte di offese e umiliazioni. Un insieme di gesti, limiti, imposizioni irragionevoli che creano un’infelicità senza nome. E’ ciò che si definisce “clima maltrattante”. Un malessere difficile da denunciare, persino da capire. Perché ammettere, prima di tutto a se stesse, che a farci del male è qualcuno da cui ci aspettiamo affetto e protezione, è doloroso e difficile. Spesso, le prime che stentano a capire sono proprio le vittime di questa violenza, “affare privato” su cui si deve tacere. Ci sono donne che subiscono per anni, accettando in silenzio umiliazioni accanto a un uomo percepito come dottor Jeckill e Mister Hide: buono e gentile in pubblico, mostro in privato. Alla violenza fisica si arriva in un secondo tempo, a fronte di tensioni che crescono come reazione a donne che non accettano di “stare al loro posto” o che decidono di “parlare”. Di solito però, la reazione tarda ad arrivare. L’inevitabile ambivalenza tra amore e rabbia è alterata e la violenza invece di separare, unisce. Staccarsi viene percepito come più pericoloso che rimanere muti a subire. Donne che appaiono come anestetizzate. Anche dietro una frase “A volte esagera ma in fondo mi vuole bene” possono nascondersi condotte violente: trovare un alibi, a costo di giustificare una violenza, è un modo per cercare di dare un senso alla propria storia e sopravvivere al senso di colpa. Entrano in gioco la vergogna, il timore di essere criticate o non essere credute, soprattutto quando chi maltratta gode di stima da parte delle persone intorno. Per uscire dalla violenza, le donne vanno aiutate a rielaborare il loro vissuto, raccontarsi una storia diversa, in cui la violenza è un male e chi lo subisce, non è responsabile ma vittima. Le iniziative a tutela delle donne però non bastano. E’ necessario iniziare a lavorare anche sugli uomini violenti. Il problema è che per cambiare, il maltrattante deve riconoscersi come tale. Ma non tutti hanno la coscienza di Gandhi che ammise: “Ho imparato la lezione della non violenza da mia moglie quando ho cercato di piegarla alla mia volontà”. Eppure, finché gli “uomini violenti” non saranno educati a questa coscienza, le cicatrici sulle donne continueranno a restare. E non solo sul corpo, ma sull’anima violata.


La leggenda del raptus

Nell’ultimo periodo, sulle pagine dei nostri giornali, i titoli di cronaca nera in cui c’imbattiamo sembrano somigliarsi un po’ tutti: “In un raptus strappa gli occhi al padre”, “L’ha uccisa in un raptus di gelosia” e ancora “Uno sguardo di sfida fa scattare il raptus”. Termini come “raptus” o “follia” troppo spesso vengono associati a episodi di violenza tentata o subita e, troppo spesso, non ci dicono nulla su ciò che realmente si nasconde dietro questi fatti criminosi. Io stessa tempo fa, in un articolo scritto su queste pagine riguardo gli abbandoni sentimentali, sottolineai la distinzione fra omicidio passionale e omicidio d’impeto, inteso come un’esplosione emotiva improvvisa e incontrollabile. Bisogna stare attenti però, a non ridurre il fenomeno ad un mero attimo di follia improvvisa. Questa è la leggenda a cui si è portati a credere. Dietro la parola “raptus” e dietro ciò che in realtà lo determina, esiste sempre un percorso, un percorso sommerso che però conta. Una storia che si prepara prima, fatta di frustrazioni, rabbia, impotenza, un insieme di sentimenti che trovano la loro massima espressione in un gesto improvviso di perdita di controllo di sé. Una delle metafore più significative che spesso uso con i miei pazienti per descrivere la nostra vita emotiva, è quella della pentola a pressione che, così come all’aumento graduale della temperatura, senza valvole di sfogo, prima o poi esploderà, allo stesso modo le esplosioni emotive della mente umana, come i raptus, rappresentano lo sfogo violento, incontrollato e irrazionale delle emozioni e frustrazioni represse. Sotto l’effetto dei raptus si inveisce, si distrugge, si uccide. Questi delitti avvengono in uno stato mentale di coscienza alterato che si crea, dunque, come un corto circuito tra emozioni violente e comportamenti, escludendo totalmente la logica e la razionalità e dove l’ostilità verso tutto e tutti non è più contenibile. Tutto in quel momento viene visto come un nemico su cui scaricare l’aggressività cieca e violenta. Anche nella calda quiete familiare può bastare un niente per scatenare comportamenti violenti. Il raptus di fatto appartiene a persone che ancor prima manifestano un malessere presente nella loro mente, attraverso segnali che spesso non vediamo o che sottovalutiamo. E’ per questo che quando il fatto avviene, ci potrebbe sembrare imprevisto e imprevedibile. Ma anche l’esordio di una malattia mentale, in fondo, viene preannunciato da una serie di comportamenti “strani”. Se noi non diamo alcun valore a quei comportamenti, succede che l’azione ci sembra al di fuori di ogni comprensibilità. Invece non è così. Il percorso oscuro di quell’azione ha radici nella mente dove si vanno ad accumulare rabbia, impotenza, inadeguatezza o l’incapacità di farsi valere. Tanto più lungo sarà il percorso, il periodo in cui ho combattuto contro l’idea di essere impotente, tanto più aumenterà l’intensità della reazione. E’ vero che per qualsiasi mente umana nulla è prevedibile e nulla è escludibile per ciò che farà in futuro, fatto sta che i segnali esistono sempre ma il più delle volte non li vediamo. In questi termini allora potremmo dire che non esiste il raptus, esiste piuttosto un’esplosione dopo anni di sofferenza manifestata in diversi modi, spesso confusi ma che pur sempre ci comunicano tanto. E se solo la società non dimenticasse che esiste anche il “disagio mentale” che pertanto va curato, forse prima che si arrivi al raptus, sarebbe possibile ancora fare qualcosa.


Donne allo specchio

C’era un tempo in cui le bambine giocavano a Castello e “Uno due tre Stella”. Ora invece, le bambine impiegano il loro tempo a incipriarsi il naso. Fra trucchi, massaggi e manicure, magari trovano anche il tempo per fare shopping, con Barbie sottobraccio. Kid’s Beauty, così chiamano all’estero il “Tempio del benessere” rivolto a bambine rigorosamente under 14. Le caramelle ci sono, lo smalto e il rossetto, pure. Le mamme? Loro sono ben liete di accompagnarle, soddisfatte delle loro caricature in miniatura. Madri che a tutti costi vogliono sembrare moderne e progressiste, così spaventate dall’idea di apparire noiose conservatrici, da aver fretta di far crescere le loro figlie. Madri talmente assuefatte dalla violenza subdola da non riuscire più nemmeno a percepirla, diventandone loro stesse artefici. Viviamo in una società schizofrenica in cui, da un lato, si riconosce la protezione del bambino come valore primario, dall’altro, si tende a opacizzare sempre più le differenze tra adulti e bambini, ad accelerare la loro crescita in nome di una precocità che dovrebbe renderli vincenti nell’arena sociale, quando invece, inculcare nei bambini atteggiamenti tipici degli adulti, altro non è, che una forma di violenza. Furto dell’infanzia. Nella nostra società si diffondono sempre più manifestazioni mascherate di violazione dell’infanzia, basta sfogliare riviste di moda (vedi il caso Vogue) in cui proliferano foto di ragazzine truccate in abiti succinti e pose seduttive, sempre più somiglianti a bambole gonfiabili che, in maniera più o meno esplicita, veicolano messaggi più o meno erotici. Il tutto, naturalmente, avviene per la gioia degli sponsor e della mamma che, con occhi sognanti, attende il successo dell’amata figlia. Così, mentre le donne si preparano a scendere in piazza per difendere la loro dignità e contrastare l’utilizzo volgare e offensivo che si fa della loro immagine, le bambine si “erotizzano”. Ciò che più preoccupa è che a questa forma di erotizzazione precoce non concorrono soltanto i media ma anche molti genitori. Le ragazzine sono così indotte a pensare al loro corpo come oggetto di desiderio altrui e a considerarsi cose da guardare e valutare per il loro aspetto, incoraggiate a impegnarsi in atteggiamenti seduttivi che attirano l’attenzione dell’altro sesso, prima ancora di essere in grado di comprenderne le potenziali conseguenze sul piano fisico e psicologico. Il fatto che, per imitazione, una ragazzina arrivi ad assumere atteggiamenti da lolita, non fa che fornire appoggio agli stereotipi sessuali che dipingono le donne come oggetti di desiderio e fanno dell’aspetto estetico il cuore del loro valore, arrivando a rappresentare un allettante vivaio che soddisfa le brame voyeuristiche e normalizza gli appetiti dei pedofili. Per questo, di fronte a tali forme di mercificazione, i genitori ma soprattutto la donna nel proprio ruolo di madre, dovrebbe prendere coscienza di come i propri atteggiamenti possano incoraggiare questa tendenza invece di ridurne l’impatto. Forse ogni madre dovrebbe ricordarsi più spesso di quando era bambina e giocava a Castello e “Uno due tre Stella”. Quando l’infanzia né si comprava, né si vendeva e ogni bambino, aveva ancora il diritto di essere bambino. Ora invece, viviamo in un paese in cui fa giustamente inorridire l’idea che un ricco, vecchio signore possa aver usato giovani donne per soddisfare i suoi “bassi istinti” ma, la naturalezza con cui le giovani donne ammettono candidamente di essersi fatte usare, non ci meraviglia più.


Contro l’anoressia non basta sdoganare la 46

La notizia è che “Miss Italia 2011” aprirà le porte alla taglia 46. Sembra che vogliano provare a smantellare quell’immagine di donna idealizzata, magra e sorridente, imposta dalla corrente mediatica e il cui effetto nefasto ha già fatto sentire, sui soggetti più fragili, i suoi segni mortiferi. Ci aveva già provato il governo Zapatero, oggi tocca a noi. Dopo varie campagne di sensibilizzazione contro l’anoressia, questo è l’ennesimo tentativo di cambiare un’epoca dell’immagine dove il canone estetico della magrezza è da sempre premiato, specie dai mass media. Ma davvero si diventa anoressici per il semplice effetto del condizionamento mediatico? L’anoressia è di certo il sintomo di una cultura dell’immagine e dell’incomprensione dell’immagine stessa. Non si diventa anoressici da soli ma in un contesto sociale dominato dalla mancanza d’“essere” e dove il corpo ruba il posto all’anima per riconoscersi, comunicare. Anoressia e Bulimia, infatti, non sono malattie del corpo ma esprimono con esso una sofferenza profonda, fatta per esser vista ed esibita attraverso il corpo. La magrezza, ne è solo il sintomo e chi ne soffre, è una persona talmente identificata con il proprio corpo che spesso non sa mettere in parole la sua sofferenza. Persone fragili, impotenti che cercano la propria identità in un peso corporeo idealizzato credendo che controllando il corpo possano controllare anche la propria vita. Si cerca approvazione nella magrezza inseguendo canoni estetici ideali, senza accorgersi che sarà la magrezza stessa, ben presto, a controllare. La magrezza diventa straordinaria conquista nonostante l’amenorrea, i sintomi depressivi, ossessivi, compulsivi che aumentano di pari passo con la perdita di peso. Come in una prigione, in un corpo sfinito e consunto, gli anoressici s’illudono di avere tutto sotto controllo, il loro corpo e i loro bisogni e giudicano debole chi “cede” ai bisogni del corpo. Si ergono così psicologicamente sugli altri, sui “deboli” ma a livello psichico sono esseri fragili e bisognosi, non amano se stessi e vivono con la paura di essere rifiutati o non essere amati. Servendosi dell’isolamento, evitano il rifiuto. Con la negazione del cibo mettono a tacere tutte le emozioni e questo, è certamente più sicuro del lasciarsi andare. Il dolore resta così incompreso, congelato nel corpo. Un dolore che non vogliono riconoscere e che spesso può nascondere una storia di traumi, violenze e abusi sessuali, dove l’unica soluzione diventa quella di “sparire” con il proprio corpo attraverso la via del digiuno, senza accorgersi che rifiutando il cibo, stanno rifiutando tutto ciò che è stato dato loro, anche la vita. Non è quindi il corpo ridotto ad un mucchietto di ossa senza spessore che chiede aiuto ma è la persona con il suo mal di vivere che ha bisogno di essere accolta. E’ chiaro quindi, che non è il condizionamento mediatico ad essere la sola causa dell’anoressia ma se si sceglie il corpo come teatro di sofferenza celata, è di certo perché viviamo in un epoca in cui il senso di ciò che siamo è ingabbiato nel modo in cui appariamo, conseguenza del suadente bombardamento mediatico. Fino a quando si darà attenzione solo a questo, la sofferenza non avrà mai modo di essere ascoltata. Se a “Miss Italia” si esibiranno “persone” e non solo corpi perfettamente modellati (magari con un aiutino chirurgico) con l’unica differenza in una taglia, allora sarà apprezzabile l’impegno. Ma crediamo davvero che a “Miss Italia” possano interessare “persone”?


L’altro volto delle feste di fine anno

Mentre si accendono le luci in città e tutto intorno brilla in una calda atmosfera ovattata, c’è chi non sorride. Tra la gente, in silenzio, prova una sensazione indefinibile che si trasforma in ansia, tristezza, fino a dargli struggimento. Eppure è Natale! Dov’è finita la felicità di quando era bambino? Gli spot in televisione, l’entusiasmo dei bambini in attesa dei regali, i preparativi dei familiari, tutti sembrano gioire ma lui ha nel cuore il gelo e, sotto l’albero, il vuoto. Si sente a disagio, inadeguato perché non è felice come l’occasione richiederebbe. Se solo avesse la possibilità di sparire, lo farebbe. Così cerca tutte le scuse possibili per giustificare il proprio stato d’animo: il consumismo, l’ipocrisia, la commedia del volersi bene.  Il Natale sembra avere un altro volto per lui: quello amaro della solitudine, della tristezza. Volto reso ancora più acuto e doloroso per il contrasto stridente con la felicità, più o meno vera, degli altri. Si chiama “Christmas blues”, la melanconia del Natale che, con la sua atmosfera, ha il potere di amplificare il nostro stato d’animo facendoci tornare un po’ bambini, meno disposti ad indossare maschere per nascondere le emozioni più profonde. Il Natale ci invita a riflettere sulla nostra vita, sulle persone che abbiamo accanto e che abbiamo perso, sulle delusioni vissute e i cambiamenti che vorremmo. Il dolore impalpabile e indefinito che a volte ne consegue, ci porta così a vivere pesantemente queste giornate cariche di aspettative. Un tour de force di visite obbligate, sorrisi di circostanza, buoni sentimenti forzati, il tutto magari preceduto da una frenetica corsa ai regali. Ulteriore fonte di stress specie per chi, a causa di un lavoro precario o che non c’è più,  si avvicina a vivere un Natale di crisi. Ma la “famiglia artificiale” prevale su quella di tutti i giorni. Una vera e propria recita collettiva che si è chiamati ad onorare come attori obbligati nel proprio ruolo di figlio, nipote, genitore, nonno, anche se magari si attraversa un momento in cui non si è capaci di dare agli altri il meglio di sé. Costretti a condividere con parenti lunghe giornate di festa, cene, rituali nei quali ci si sente estranei e a disagio. Così si attende il nuovo anno come una sorta di liberazione, non dall’anno vecchio ma dalle feste. Le tradizioni però, danno significato e continuità al nostro vissuto, pertanto più che negarle, dovremmo imparare a viverle! “Non vi è nulla di più triste che svegliarsi la mattina di Natale e non essere un bambino”. Niente di più vero. Ci aspettiamo quella felicità che abbiamo vissuto da bambini e quando non arriva, ci sentiamo delusi. Adulti schiacciati da convenzioni che obbligano a badare più alla quantità che alla qualità. Dimenticando che ciò che bisogna curare è lo “scambiare” non il “riempire”, ora di cibo, ora di regali o di persone. Il gusto della condivisione si può ritrovare solo scegliendo con chi vogliamo stare e dove stare. Allora forse, alla fissità dei nostri ruoli, dovremmo imparare a rispondere con una maggiore flessibilità delle emozioni, per uscire da una ritualità che non sentiamo nostra e trovare modi nuovi ma “sentiti” per celebrare il Natale. Ci basterebbe entrare in sintonia con chi ci sta vicino cercando ciò che di buono si può trovare in ognuno e ritagliare uno spazio tutto per noi, in cui poter essere tristi senza soffocare le nostre emozioni. Ascoltare se stessi è, senza dubbio, il regalo migliore che ci possiamo fare. Buon Natale!


P_ossessione d’amore

Osho, mistico contemporaneo, nei suoi insegnamenti scriveva: “Se sai come amare, saprai come separarti”. Ma non sempre è così. La frequenza con cui i titoli di cronaca sono sempre più legati ad abbandoni sentimentali ce ne dà conferma. Vite spezzate per mano di un ex. C’è chi cerca un alibi nel caldo, chi lo definisce un fenomeno di genere “sintomo del declino patriarcale” perché spesso sono gli uomini i protagonisti di questa cronaca. Uomini che posti di fronte la minaccia di un abbandono reagiscono con violenza pur di recuperare briciole di potere. Ma questi episodi di violenza che a volte esplodono all’improvviso, ci parlano pur sempre di storie e di persone le cui strade ad un certo punto s’incontrano. Ci parlano di vite spezzate da ferite profonde, di persone che cercano nella relazione una cura impossibile che non arriverà mai. Una cura che possa riparare carenze affettive che nascono da molto lontano. Spesso ci troviamo di fronte “adulti dipendenti” che fin da piccolissimi hanno avuto una “relazione di attaccamento” insicuro con la madre (o chi per essa), incapace di aiutarli a sperimentare la separazione in modo non traumatico. Questi, da adulti, proporranno all’interno della relazione amorosa quell’antica simbiosi materna mai raggiunta, cercando continua rassicurazione rispetto al terrore di poter perdere l’oggetto d’amore. Per loro amare ed essere amati significherà possedere completamente l’altro. Non riescono neppure ad immaginare di poter essere lasciati: l’altro deve essere a loro completa disposizione. In genere è difficile affrontare la perdita di un amore che si è vissuto con senso di appagamento e come realizzazione di un proprio sogno. La perdita non voluta dell’altro porta alla conseguente perdita di parti di sé (spesso le migliori) che sull’altro erano proiettate. Il suo abbandono dà luogo ad un dolore profondo, ad una perdita di senso della vita. Una persona  dotata di una buona autostima e sicurezza di sé, costruita sulle basi di un buon “attaccamento”, dopo un adeguato periodo di “lutto amoroso” riuscirà  ad accettare l’abbandono e superarlo. L’adulto dipendente, invece, vive la  possibilità abbandonica come qualcosa di assolutamente intollerabile che lo indurrà ad una ricerca estenuante di ripristino di quell’unione, senza la quale non può vivere, che portata all’estremo con attività di stalking, attraverso comportamenti molestanti, assillanti e continuativi, può conclamarsi nel cosiddetto “omicidio passionale”. Lucido e mai improvviso, l’omicidio passionale, diversamente da quello d’impeto, è l’atto di possesso più spregevole e definitivo nella patologica “sete d’amore”. Nessuno uccide senza motivo e quelli che agli occhi di un osservatore potrebbero sembrare motivi banali, per l’autore dell’omicidio hanno sempre un senso profondo legato alla propria storia e alla storia di coppia. E’ necessaria quindi una seria riflessione sull’animo umano e sulla complessità del suo sentire, sulle innumerevoli ambiguità, conflitti e contraddizioni che lo caratterizzano. I nostri sentimenti non sono così lineari e ben definiti. Ciò non significa che queste persone non vadano fermate ma una volta fermate e “punite” vanno anche aiutate. Questi episodi di cronaca devono almeno servire come opportunità, triste opportunità, per poterci seriamente interrogare, capire ma forse, un giorno, anche prevenire. Perché si possa insegnare ai ragazzi non solo cos’è la sessualità ma anche cosa significa essere bravi genitori. Cosa significa amare. Bisogna imparare ad amare in modo diverso. Un amore vivo, presente, dove sia ammesso il possesso ma non la “proprietà”. Imparando così ad amare e, forse, anche a separarsi. Separarsi con diritto e dignità. La stessa dignità di un tempo, di quell’amore andato perso.


In viaggio verso l’holiday blues

Agosto, periodo in cui ci si incontra in città semideserte e invece del “Come stai” ci si chiede “Tu non vai in vacanza?”. Rito d’obbligo collettivo dell’estate. Viaggio a cui non si può rinunciare pur di esorcizzare quell’immagine statica di noi stessi. Si viaggia verso il mare, i monti, tutti i posti purchè sia un “altrove”. Un altrove che ci permette di scoprire alternative immaginate, di svincolarci dai “lacci” della quotidianità e riscoprire il nostro “io” libero da ansie e restrizioni. Troppo spesso però, viviamo il momento della partenza con l’illusione che due mandate di chiavi alla nostra porta blindata possano blindare anche i nostri problemi. Come un’amante troppo a lungo desiderata ci aspettiamo che la nostra vacanza metta a posto tutto quello che non funziona nella nostra vita, le fatiche, gli stress, le ferite psicologiche o il ricordo di un amore appena finito: impossibile. I colori del mare al tramonto di certo non hanno nulla a che vedere con le nostre mura domestiche ma puntualmente, quando pensiamo al nostro viaggio in modo magico e idealizzato, come una sorta di “panacea” per tutti i nostri problemi, il rischio in cui incorriamo è di trasformare quello stato di fuga momentaneo in un ulteriore fonte di stress da cui senz’altro saremo delusi. Delusione che cancella ogni fascino di qualunque bellezza di quei luoghi tanto sospirati, che ci lascia smarriti, ansiosi, desiderosi di tornare alle nostre amate abitudini, così rassicuranti rispetto a luoghi che non conosciamo! Viaggiare infatti è spostarsi da un luogo all’altro e quindi, in un certo senso, è trovarsi in una sorta di terra di mezzo non definibile, sconosciuta e ciò che non si conosce per definizione spaventa. Non a caso “partire è un po’ come morire” si dice. Ma nonostante ciò ci facciamo coraggio pensando che non possiamo rinunciare al nostro viaggio, unica soluzione a tutti i problemi. Quando però al rientro ci accorgiamo che nulla è cambiato e che ogni problema è rimasto esattamente lì dove l’avevamo lasciato, al malessere si aggiunge altro malessere. Delusione, senso di stordimento e tristezza diffusa sono solo alcune delle inevitabili conseguenze di un viaggio che abbiamo idealizzato e che non è andato come avevamo immaginato. “Holiday blues”, così chiamano gli americani la “sindrome da rientro”. E’ in questo momento che ci rendiamo conto che la nostra scelta di partire, carica di aspettative, forse è stata un obbligo dettato più dalla moda e dalle nostre conflittualità irrisolte, che da un nostro reale bisogno. Comprendiamo allora che spensieratezza e gioia sono esperienze ed emozioni soggettive, non oggettive come la vacanza in sé, che non possono manifestarsi se non ci allontaniamo effettivamente, ossia anche interiormente, dai nostri problemi concreti. Nessun viaggio, per quanto entusiasmante, può sanare le nostre ferite se prima non impariamo a fermarci. Basterebbe chiudere ogni tanto gli occhi e ascoltarsi avvicinandosi con entusiasmo alla vita, con curiosità alle diversità e prospettiva alle difficoltà. Ascoltare il proprio cuore, i sogni dimenticati ma non perduti, i bisogni che il ritmo incessante della nostra vita soffoca, forse può essere già l’inizio di un viaggio che possiamo ripetere ogni volta che ne sentiamo il bisogno. Perché, citando Pessoa: “Per viaggiare basta esistere. Soltanto l’estrema debolezza dell’immaginazione giustifica che ci si debba muovere per sentire. […]La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori.[…]”


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